domenica 30 settembre 2012

LE DIECI FERMATE DI FILO-BLUES


Intervista a Luigi Mariano

Ritenuto dalla critica (Andrea Scanzi, “Il Fatto Quotidiano”) uno tra le dieci leve cantautorali più significative degli anni Duemila, Luigi Mariano, galatonese di nascita ma residente a Roma da più di vent’anni, risponde alle nostre dieci domande con grandissima disponibilità e competenza.
Il tour di “Asincrono”, il suo ultimo album, sembra non avere mai fine: Luigi ha già calcato le platee di tutta Italia, ricevendo ovunque riscontri positivi da parte di pubblico e critica. In particolare, con il brano “Edoardo” – dedicato a Edoardo Agnelli e al rapporto padre-figlio – ha vinto, nel 2011, il Premio Bindi come miglior testo.
Nel suo repertorio, canzoni ironiche e provocatorie, ma anche d’impegno civile e denuncia sociale.


1) Qual è il peccato peggiore per un musicista?
La mancanza di umiltà. Ma non quella apparente, anzi: abbasso la falsa modestia. Parlo di atteggiamento intimo, reale. Inutile bluffare con sé stessi. È poi deteriore lo snobismo, la chiusura. Non c’è cosa peggiore di credere che anche chi riteniamo inferiore qualitativamente non possa insegnarci qualcosa, non solo come persona, ma anche nel lato artistico.
Un altro grande peccato è l’esibizionismo fine a se stesso, ossia senza costrutto dietro, senza un percorso dentro.

2) Che cosa ti fa ridere?
La dissacrazione intelligente. Destrutturare le nostre ataviche “costruzioni” umane, gli usi o le rassicuranti consuetudini, che da una parte ci permettono sì di vivere e organizzarci con “apparente” stabilità, ma dall’altra spesso c’ingabbiano come in una prigione, soprattutto mentale. Mi fa scoppiare la risata fragorosa. In questo senso, per me, Carmelo Bene è più comico di Totò, Benigni e Troisi messi assieme, che pure adoro.

3) Associa tre brani a tre stati d’animo.
Sebbene nel vestito sia soft e solo malinconica, la musica di “Moon River” per me è dolore puro, straziante e lacerante, mi racconta qualcosa che doveva essere e non è stato, che si sognava, ma che è andato perduto per sempre dallo scorrere ineluttabile della vita.
Thunder Road” è coraggio, forza e speranza, un invito ad andare incontro alla vita, a non morire dentro, a non arrendersi, a uscire dal proprio guscio per trovare se stessi nel mondo.
Vecchio frack” è un modo di descrivere una storia drammatica con soave leggerezza, fischiettando: dovremmo poter avere sempre questo sguardo meno pesante davanti alle ingombranti vicende della nostra vita.

4) In che cosa credi?
Innanzitutto credo nel percorso che ho scelto, altrimenti non farei il musicista.
Credo poi nella sensibilità, la profondità, l’apertura mentale, il cervello in movimento. Nella cultura. Nella curiosità sana e costruttiva per il mondo e le persone. Nel garbo, la gentilezza, la pazienza, la discrezione, l’umanità. Nell’onestà intellettuale. Nell’ironia e autoironia, nel rispetto, la purezza d’animo, il guardare “l’altra faccia” delle cose, lo smuoversi dalla massa o dai pecoroni, il coraggio di lottare per le proprie idee e quello di cambiarle.

5) Chi è il musicista più significativo di sempre?
Chi può dirlo… Bach, Mozart e Beethoven hanno contato davvero molto.
Morricone per il Novecento di sicuro. Sebbene io abbia grande ammirazione e vera gratitudine per gli “sperimentatori” (vedi l’immenso John Cage o il primissimo Battiato), sinceramente ne ho ancora di più verso chi, rompendo col passato e risultando dunque un clamoroso innovatore (che dunque dovrebbe spiazzare), riesce al contempo a non restare nella nicchia, ma a conquistare il popolare. Sperimentare restando nella nicchia è normale, appartiene a grandi talenti che fanno progredire, ma non ha nulla di clamoroso; avere il coraggio di farlo riuscendo allo stesso tempo anche ad arrivare a tutti è da veri geni.
In questo senso Modugno o Battisti sono dei mostri inarrivabili del loro tempo.

6) Che cosa ti fa più paura?
La chiusura mentale è al primissimo posto.
E mi fa paura l’eccesso di paura, che porta alle diffidenze esagerate, poi ai razzismi e infine alle guerre.

7) La musica svolge un ruolo sociale?
Per me dovrebbe svolgerlo, eccome. Ma non mi sento di dare ricette o pretendere che sia così per forza. Il concetto di ruolo sociale, d’altro canto, non per forza è da associare al concetto di impegno o di cultura, che io comunque ritengo doveroso per la musica. Nel ruolo sociale può essere anche contemplato lo svago, la leggerezza assoluta. Serve anche quello. Il problema del giorno d’oggi è che il ruolo sociale della musica, soprattutto per colpa della tivù, ma non solo, sta via via diventando SOLO lo svago e la leggerezza. È questo il grossissimo problema. L’aspetto culturale si sta affievolendo, sin quasi a sparire.

8) Qual è il tuo ricordo musicale più vecchio?
“La tartaruga” di Bruno Lauzi e “Sandokan”, che cantavo a tre anni. Ho ancora le registrazioni audio e sono inserite nella ghost track del mio disco.

9) Qual è il rumore che ti disturba di più?
Detesto e soffro talmente tanto i rumori, anche a livello fisico, da obbligare me stesso a vivere più di notte, in maniera dunque antifisiologica, quando tutto tace. A parte il solito martello pneumatico (che non fa piacere a nessuno), il rumore che mi disturba di più è la chiacchiera molto concitata ad alto volume, piuttosto gracchiante, direi quasi urlante, tra due o tre persone un po’ su di giri (per carattere o per fatti accaduti), ma che non necessariamente stiano litigando.

10) Cosa non vorresti mai sentire alla radio o vedere in televisione?
Programmi che offendono l’intelligenza. La tivù la vedo poco, proprio per questo. In radio ogni tanto si trova invece qualche piccolissima oasi di luce.


Silvia Resta

mercoledì 19 settembre 2012

CO-INCIDENZe


Gli altri Salenti possibili
Contronatura Festival @ Piazza San Giorgio - Melpignano (7 settembre 2012)

Obbligo (per turisti tarantati e non) di restare nei paraggi! Perché la musica nel bel Salento di facce ne ha tante e diverse, e ci si sente in dovere di gridarlo forte in giro. Un plauso va, anzitutto, a una eclettica Melpignano che colleziona e concede palcoscenici variegati, e che ci mette un attimo a passare dalla Magna Grecia dionisiaca delle notti in diretta televisiva alle intime camerette della Glasgow pop degli anni Ottanta.
Che poi, prima di farci sorprendere da quest’ansia da prestazione, all’epoca in cui le tarante si occupavano per mestiere delle donne nei campi di tabacco e non erano tenute a comparire sulle magliette dei visitanti, era proprio Melpignano a ospitare i grandi happening di musica indipendente. Basti tornare con la mente ai vari “Melpignano Rock” ed “Econcertologia”, o a quella che le radio dell’epoca sventolarono come «la lunga notte del rock italiano», nel lontanissimo 1987, che vide alternarsi sul palco gente come i CCCP, i Sick Rose, i Moda di Andrea Chimenti e i primi Litfiba di “17 Re”. Questi ultimi salirono sul palco alle 3 e mezzo per concludere il concerto ad alba già avanzata (e ricordarlo nell’anno in cui Bregovic smonta le tende alle 2:00, lasciando centomila anime a vagare per camioncini, mette anche una certa nostalgia).
Il Contronatura Festival è una bella iniziativa che prova, insomma, a rinfrescare la memoria cercando di ritagliarsi una strisciolina in un’hype così sbilanciato verso l’attività di import/export culturale che va per la maggiore negli ultimi anni. Un progetto finanziato interamente dal bando regionale di Principi Attivi, dietro le cui quinte troviamo l’associazione Odelay, una bella équipe di inguaribili sognatori: così li hanno definiti in giro per blog, e dal cartello artistico scelto non si fatica certo a convincersene. Tra loro milita anche, tanto per dirne una, uno degli artisti salentini più trascurati sul suolo natio (nonché tra i più schivi), ma che è invece apprezzato da critica e web-community internazionali, e che risponde al nome di Giorgio Tuma. Una proposta artistica forse un po’ intransigente, a giudicare dalle band scelte per l’esibizione, formazioni perlopiù misconosciute e alcune alla vigilia dell’esordio, ma che ci tiene a preservare un gusto e un’attitudine ben delineati, dal respiro internazionale e dal manifesto alquanto ambizioso: “tracciare una linea di novità, portando all'attenzione del pubblico salentino e italiano le nuove tendenze in ambito musicale internazionale”. Attitudine e gusto son squisitamente pop-oriented, nell’accezione più storicamente “indie” del termine, il trend internazionale a cui si fa riferimento efferatamente revivalistico (ma in fondo così è se ci pare!).
Start intorno alle 22:00 con una giovane formazione nord-pugliese, gli Eels on Heels, già vincitori dell’edizione leccese di Italia Wave nel 2011 e autori di un’elettronica oscura e ossessiva, sfumata di morbosità industriali e atmosfere dark col neo di divenire, forse, un po’ ammorbante col tempo e raramente incisiva sul piano live. A seguirli sul palco gli Holidays, seconda formazione italiana proveniente dalla capitale. Dalla loro un indie pop sognante e dolciastro, che va a sciorinare sfacciatamente uno per uno tutti gli stereotipi del revival new wave: abuso di delay su voci e chitarre, climax rarefatto, beat in quattro quarti fino alla nausea, aura piaciona anni Ottanta, etc. Un live che scorre via però piacevole e senza fronzoli, a dimostrazione della buona tecnica della band e di una discreta tenuta del palco.
Gli stranieri faranno meglio di noi, a partire dai londinesi Weird Dreams, con un apprezzato primo album all’attivo, che più che un gruppo di revival sembrano schizzati fuori direttamente da un garage della “young Scotland”. I loro circa quaranta minuti di live chiudono a chiave piazza San Giorgio, e i circa seicento spettatori presenti, nella cameretta di un timidissimo Edwyn Collins (Orange Juice) con melodie, cori – devoti senz’altro ai Beach Boys – e chitarre luminosissime figlie del jangle pop di quegli anni. La pregevole fattura dei brani, a doverla dire tutta, non viene accompagnata da una presenza altrettanto convincente sul palco e più di qualcuno fra i presenti si concede qualche distrazione.
Dopo di loro, è finalmente la volta degli headliner di questo festival, se così possiamo chiamarli, ovvero i norvegesi Young Dreams: cresciuti sotto l’egida del cantautore e multistrumentista Matias Tellez, son da poco approdati nel roster dell’australiana Modular Records (Cut Copy, Yeah Yeah Yeahs) dopo una manciata di singoli e una serie di festival in giro per l’Europa. Attendere il loro live vale tutta la candela di questo Contronatura; vederli suonare sul palco, nella perizia e assoluta pulizia strumentale e nel loro stile impeccabile è la scommessa assolutamente vinta. La proposta dei norvegesi gravita attorno a un pop psichedelico che, finalmente, riesce a non rimanere incatenato nei riferimenti che insegue, dalle hipsterie da giungla figlie degli Animal Collective (e soprattutto di Panda Bear), a un melodismo e un gusto per l’arrangiamento che riportano alla mente certe produzioni barocche del John Cale solista. Aria pulita d’alta montagna si respira nell’attitudine corale e armonica di alcuni brani, che non può non rimandare ai Fleet Foxes o a certo modernariato tropical alla Vampire Weekend. Un anticipo sui tempi, insomma, e a pochi mesi dal suo esordio per una band che potrebbe fare la differenza sul mercato indie internazionale. A chiudere la serata l’istrionica svedese Elliphant e i suoi beat electro e minimal, contesi tra hip-hop ed elettronica da ballo, anche lei alla vigilia del suo esordio discografico ma con già diversi singoli all’attivo.
Il Contronatura è almeno il terzo festival di questa estate (dopo il Lottarox e il Bikini Kill tenutisi entrambi tra luglio e agosto al Parco Gondar di Gallipoli) che cerca di spostare l’attenzione sulla scena indie rock italiana e internazionale, sintonizzandosi su frequenze e territori inevitabilmente all’oscuro di certi riflettori. Onore dunque a chi decide di investire in questa direzione, a prescindere dalla riuscita o meno della manifestazione. La patologia di fondo sarebbe partire dall’idea che reparti come questo debbano essere per forza relegati – per attitudine o poca stima di sé – alla nicchia dei “soliti quattro gatti” e pertanto non avere futuro. La discreta riuscita di questa prima edizione suggerisce invece che non sarebbe affatto difficile sognare una qualche continuità anche per questi altri salenti possibili, con la giusta caparbietà e magari cercando di essere velatamente più accondiscendenti sulla scelta dei nomi, optando per realtà meno di nicchia anche se valide. Insomma, in bocca al lupo.

Gianpaolo D’Errico

sabato 15 settembre 2012

LE DIECI FERMATE DI FILO-BLUES


Intervista a: Uro

Reduci dall’esperienza di Arezzo Wave Love Festival, i talentuosi Uro (Jory Stifani, chitarra; Pierluigi Sabato, basso; Alberto Scarpello, batteria), in attesa di portare in giro per live il loro post-rock strumentale, salgono senza biglietto su una corsa notturna del Filo-blues. Almeno i controllori non fanno paura quanto alcune conduttrici Mediaset...

1) Qual è il peccato peggiore per un musicista?
Jory: Senza dubbio il virtuosismo. È inaccettabile in una band.
Alberto: Per me il prendersi troppo sul serio, anzi il prendersi sul serio e basta.
Pierluigi: Fare le cover.
J: Se le metti tutte e tre insieme, le risposte, esce fuori una cosa bruttissima che fanno quasi tutti!

2) Cosa vi fa ridere?
P: A me fa ridere l’alcol. In senso fisico: quando bevo rido un sacco.
J: Boh, è difficile, non saprei...
A: Io lo so, a me fanno ridere le scoregge!
J: Ecco, io mi metto a ridere quando qualcuno parla di scoregge.

3) Associate tre canzoni a tre stati d’animo.
A: ...e ma poi nove canzoni sono tante.

Una ciascuno.
J: Sono cresciuto ascoltando i Marlene Kuntz. E anche se non è uno stato d’animo assocerei “Nuotando nell’aria” alla crescita, alla mia adolescenza.
P: Io “Vortex Surfer” dei Motorpsycho, che parte tranquilla e poi esplode nel finale, la associo alla rabbia, alla spinta che porta a reagire.
A: C’è una canzone che ho ascoltato recentemente, “Nemici” di Egle Sommacal, e mi trasmette una sensazione di relax, di tranquillità.

4) In che cosa credete?
P: Io credo in quello che facciamo adesso, con gli Uro.
J: Io non lo so, io non voglio credere in niente. Siccome sono molto pessimista non mi aspetto niente da nessuno, così non rimango deluso. Poi se qualcosa arriva, tanto meglio.
A: Io credo in me stesso.
J: Grandissimo, grandissimo... e fai bene!

5) Chi è il musicista più significativo di sempre?
J: David Pajo, il chitarrista degli Slint.
A: John Bonham.
P: Justin Chancellor, il bassista dei Tool.

6) Cosa vi fa paura?
A: Sarà banale, ma per me la morte. Quella degli altri, in particolare.
P: A me fa paura la solitudine.
A: La canzone della Pausini?
J: Io non ho paura, ho proprio il terrore dei gechi. E di Barbara D’Urso. Se per sbaglio la tivù resta accesa su Canale 5 e c’è lei ho il timore di avvicinarmi per spegnere.

7) La musica svolge un ruolo sociale?
J: Io penso che chi fa musica non dovrebbe dare messaggi né politici né sociali, la musica dovrebbe semplicemente essere considerata come una forma di espressione, di comunicazione. La mia intenzione in quanto musicista è quella di esprimermi, la musica è espressione e dovrebbe restare tale. Non è il caso di utilizzare la musica, o qualsiasi altro strumento per fare propaganda.
P: Anche perché noi poi siamo di parte, non avendo i testi.
J: Infatti quello che vogliamo dire lo diciamo solo con gli strumenti, senza parole. Altrimenti scriveremmo una storia.

8) Qual è il vostro primo ricordo musicale?
A: Il mio primo ricordo è la musica anni Sessanta che passavano su Radio Cuore, alla mattina, prima di andare a scuola, alle elementari.
J: Io mi ricordo di quando i miei genitori regalarono a mio fratello una chitarra classica per il compleanno dei diciotto anni. Poi gliel’ho rubata io!
P: Per me il cantautorato italiano in generale. De Gregori, Venditti, direi “Alta Marea”.

8) Qual è il rumore che vi dà più fastidio?
J: I batteristi che vanno sempre e solo in 4/4.
A: No, lo stavo dicendo io! Allora ripiego sul suono che fanno i carciofi quando vengono puliti.
P: A me dà fastidio il rumore del tergicristallo sul parabrezza quando sta pulito.

10) Cosa non vorreste mai sentire in radio o vedere in televisione?
P: La radio la ascolto poco. La televisione, oltre ai canali commerciali, anche i canali che si professano come alternativi in realtà mandano sempre le stesse cose. Non sono poi così alternativi come credono. Posso dirti che mi dà fastidio tanto Maria de Filippi quanto Massimo Coppola.
J: Partendo dal presupposto che la musica italiana tradizionale non ci ha ispirato, è in realtà un bene che in radio e in televisione passi solo un certo tipo di musica, altrimenti noi non avremmo nessuna motivazione per giustificare il nostro odio.
A: Io una cosa che, potendo, abolirei domani è “DoReCiakGulp” su Rai Uno. Non mi piacciono nemmeno i grandi vecchi della musica italiana che ritornano puntualmente con un nuovo disco ogni Natale. Ma in fondo è il loro modo di prendere la tredicesima.
J: Anche a me ha un po’ stancato tutto quel filone di rock anni Sessanta e Settanta. Mi sarebbe piaciuto avere vent’anni nel 68, ma purtroppo è andata diversamente. Ma è ancora peggio la gente che ascolta la musica di quel periodo convinta che attualmente non ci sia qualcosa di valido, perché non è così.

martedì 11 settembre 2012

LE DIECI FERMATE DI FILO-BLUES


Intervista a Marco Guazzone

Sul palco dell’Ariston a Sanremo, oppure alla Salumeria della Musica di Milano – dove ha aperto la prima data del tour con le note scritte da Nyman per Gattaca –, così come davanti alla biglietteria della Biennale di Venezia, voce e fisarmonica e nient’altro, Marco Guazzone è sempre generoso, tutto concentrato nel donare se stesso alla musica. Sempre. E dire che il cantautore romano, classe ‘88, da piccolissimo col vecchio pianoforte di casa ci faceva letteralmente a cazzotti. Ora Marco è impegnato nella promozione del suo progetto “Marco Guazzone & Stag”, con quattro amici musicisti al seguito – Andrea, Stefano, Giosuè e Suelo –, progetto legato all’uscita (lo scorso 17 aprile) del suo primo album: “L’atlante dei pensieri”.
A bordo del filoblues, ci rivela...

1) Qual è il peccato peggiore per un musicista?
La superbia!

2) Che cosa ti fa ridere?
L’imprevisto.

3) Associa tre brani a tre stati d’animo.
“Hoppípolla”, Sigur Rós = gioia;
“Io scriverò”, Rino Gaetano = speranza;
“La guerra di Piero”, Fabrizio De André = malinconia.

4) In che cosa credi?
Nella musica.

5) Chi è il musicista più significativo di sempre?
Chopin.

6) Che cosa ti fa più paura?
Perdere la memoria.

7) La musica svolge un ruolo sociale?
Sì, assolutamente.

8) Qual è il tuo ricordo musicale più vecchio?
“Ciao amore, ciao” di Tenco.

9) Qual è il rumore che ti disturba di più?
I clacson nel traffico.

10) Cosa non vorresti mai sentire alla radio o vedere in televisione?
La politica.


IL DISCO

Germogliato al One & Music Studio in Roma, con l’eccellente supervisione di Steve Lyon (Depeche Mode, Paul Mc Cartney, The Cure), “L’atlante dei pensieri” – su etichetta indipendente Sunnybit/Bideri  – è un diario fotografico musicale, come suggerisce il booklet di pagine separate. Sono cartoline già scritte, riproduzioni dei visi dei musicisti, o vedute di bosco, in aperto contrasto con l’universo affascinante e lontanissimo che fa da cornice alla costellazione Stag (cervo) in copertina. Il contenuto sonoro è vario e poggia anch’esso sull’effetto dell’ossimoro. Dodici brani d’ispirazione diversa, in cui temi classici e introspettivi si mescolano a interpolazioni rock, pop, jazz e soul.
Oltre alla sanremese “Guasto”, dedicata all'omonima località molisana, l’album contiene: l’allegra “Rødby”, secondo singolo estratto; la fiabesca “Il principe Davide”, scritta dopo aver sognato il nipotino nascituro; la suadente “Sabato simpatico”, della quale ha girato con la band un video in collaborazione col progetto fotografico Facity, che intende raccogliere ritratti di persone da tutte le città del mondo.
Venerdì 24 Agosto, Marco Guazzone e gli Stag hanno avuto l’onore di portare il loro personale atlante sotto l’incantevole cupola del Planetario e Museo astronomico di Roma: quando si dice la location perfetta.
Gabriele Dello Preite

mercoledì 29 agosto 2012

STORMY MONDAY #22


LA NOTTE DELLA TARANTA VISTA DA LONTANO: RICONCILIAZIONE E PAURA DEL FUTURO

La quindicesima stagione della Notte della Taranta ha il sapore della riconciliazione, come se – a distanza di quindici anni – fosse arrivato il momento di chiudere un ciclo. Per lo meno questa è la sensazione che si prova osservando l’agosto salentino dall’estero, seguendolo come possibile dai siti, dai network, dalle dirette e dai racconti.

La prima riconciliazione sembra arrivare con i direttori delle passate edizioni. Ha il sapore della rappacificazione con quel segreto di Pulcinella che da sempre connota questa rassegna. Perché tanto tutti sanno (ma nessuno lo dice) che il festival è nato, e continua a reggersi, su una miriade sconfinata di conflitti, scontri, accordi, rotture, strategie e competizioni fra persone e fazioni diverse. Fra politici e intellettuali, fra operatori e musicisti sul palco, fra musicisti sul palco e musicisti sotto al palco, fra direttori passati e direttori futuri e compagnia concertante. La cosa non è affatto un male di per sé (dallo scontro nasce la creatività, diceva il saggio), ma sembra che sia vietato sostenere questa posizione, perché tutti dobbiamo affidarci all’idea che “la Taranta porta sviluppo”. Che ci siano tentativi di riconciliazione con questa realtà sembra essere provato dalle esternazioni dello stesso Blasi. Pare che il politico abbia sostenuto – nel convegno organizzato a latere della kermesse – che “la Notte della Taranta ha molti padri, ma una sola madre” (la madre sarebbe lo stesso Blasi). Qualcuno gli ha poi fatto notare che la simbologia era infelice, perché ne discenderebbe che lui è una poco di buono e che la Notte della Taranta è figlia di buona donna. È un fatto, tuttavia, che questa frase rappresenti un riconoscimento della natura conflittuale (fra presunti padri, e fra questi e la disinvolta genitrice). Una riconciliazione, o almeno un tentativo, e spero che un giorno qualcuno racconti la storia della Notte della Taranta come storia di confronti, scontri e competizioni fra diverse personalità e istituzioni, piuttosto che come un esempio unico al mondo di innovazione della tradizione (probabilmente lo è, ma lo hanno già detto tutti, dobbiamo continuare a ripeterlo?).

Il carrozzone/concertone sembra anche riconciliarsi con la sua natura di spettacolo. Perché non è vero che la Notte della Taranta assomiglia al concertone del Primo Maggio, assomiglia piuttosto a Sanremo, solo che è in estate ed è all’aperto. Anche Sanremo, infatti, fa parte del nostro patrimonio identitario, inoltre mette insieme un’orchestra, ospiti internazionali, direttori, conduttori, ballerini e cantanti solisti in prima fila. E soprattutto c’è, nella Notte della Taranta come a Sanremo, il dietro le quinte: il parterre di politici, le personalità, i giornalisti (non manca nessuno, ci sono anche quelli che normalmente si dedicano al death metal). E tutti fanno a gara a occupare i posti migliori (e a farsi fotografare da Pierpaolo Lala). Il grande spettacolo si riconcilia con la sua natura sanremese approdando anche sulla homepage di affaritaliani.it, affianco alle tresche di Corona e alle foto pruriginose, e su youtube. Quest’ultima è una benedizione per i salentini all’estero: la ricezione è stata ottima quasi sempre e se andava via bastava riavviare il browser.

Con la chiamata di Bregovic (“all’attacco!”) è arrivata anche la riconciliazione con il nocciolo duro della Notte della Taranta, quello da cui tutto è partito. Quei giovani che, in quelle estati della seconda metà degli anni Novanta, avevano tra i sedici e i trent’anni e dividevano le loro nottate tra le ronde à la Torre Paduli, le performance di Vinicio Capossela e i concerti di Goran Bregovic (lo ha ricordato, con affetto, Pierpaolo Lala nel suo blog). Sono ancora quei giovani – forse un po’ meno giovani – a costituire il nucleo centrale delle centomila persone che affollano Melpignano (numeri della questura, ufficializzati già da giovedì).
Bregovic arriva quindi a guidare il concertone. E non è che si ricongiungano finalmente le due sponde dell’Adriatico, come tutti si affannano a ripetere. Questo è falso: le due tradizioni (le fanfare rom e la musica popolare salentina) sono diverse, e hanno poche cose in comune, e il perché lo potrebbe spiegare anche uno studente di etnomusicologia. Così come è falsa l’idea che l’obiettivo profondo del sound della Notte della Taranta fosse quello di unirsi ai ritmi balcanici, come sembra suggerire Pacoda nel suo nuovo libro. Non è che la teleologia del festival fosse quella di accorpare, a chitarre e tamburelli, trombe e sassofoni (per quello sarebbe bastato il talento di Gianluca Milanese). Quel che è vero è che si può tentare la fusione tra le due sponde. Ma questo è un altro discorso, e possiamo provare ad approfondirlo.

Esempi di incastri fra le due tradizioni (salentine e balcaniche) si possono rintracciare già nella musica dei Ghetonia di quasi vent’anni fa (su questo io ho già scritto, e Marco Leopizzi prima di me). In tal senso, il grande assente sul palco è Admir Shkurtaj (qualcuno obietterà che Admir non è da concertone, ma a quel punto dovrebbe dimostrare che la Madre Badessa Band lo fosse). Né mancavano personalità (Claudio Prima, Redi Hasa, Maria Mazzotta) che già da tempo lavorano per fare incontrare i due linguaggi musicali. Ma la ricetta del maestro, annunciata con ampio anticipo, era un po' diversa: rinunciava quasi totalmente agli strumenti armonici, lasciando spazio all’incontro fra percussioni e fiati.
Il risultato è che il ruolo delle voci è stato messo in primo piano: i timbri vocali vengono esaltati dall’asciuttezza del suono complessivo. Questo è un bene assoluto, perché ci sono – nell’ensemble – delle vocalità uniche, eccezionali, sia nella schiera femminile che in quella maschile. Epperò, in assenza di strumenti armonici, il cui ruolo è pur sempre quello di sostegno e guida, è stato difficile trovare un collante; il maestro concertatore è riuscito solo raramente a ottenere un amalgama uniforme. Quando c’è riuscito, il risultato è stato esaltante, ottenuto grazie al superbo contributo del flauto di Giulio Bianco e delle corde di Gianluca Longo.

Nel complesso si è riscontrata una grande mancanza di coesione, in particolare nei primi brani. Dopo l’intervento delle mondine, il timbro generale (e forse anche l’umore) si è un po’ assestato. L’entrata in campo della banda di Racale, poi, ha dato vita a un’esperienza sonora potentissima. Si andava sul sicuro: “Kalasnjikov” è come la Divina Commedia, tutti sanno come inizia. E una volta che si inizia bene, un modo per continuare lo si trova sempre. Così come funziona sempre affidarsi alle individualità: la parentesi con cinque uomini sul palco – Paglialunga, Castrignanò, Amato, Licci e Cavallo –, a darsi battaglia a colpi di tamburelli e acuti, ha tenuto tutti attaccati allo schermo (e poi venitemi a dire che la competizione non ha un ruolo importante nelle pratiche musicali salentine!).
Quello che è stato invece insostenibile, in questa edizione, è il gran numero di errori. Stecche e fuori tempo, per non menzionare i finali scoordinati, erano dovuti – ovviamente – alla difficoltà tecnica di conciliare i ritmi e le atmosfere vocali di due tradizioni musicali diverse. Ma gli errori sono dovuti in primo luogo al poco tempo dedicato alle prove e alla costituzione del repertorio. Quello che è mancato, in fondo, è stata proprio l’orchestra intesa come unità sonora. Questo punto, a distanza di quindici anni, è tanto più dolente in quanto ormai quelli sul palco di Melpignano sono dei grandi musicisti. Sono adulti, si sono formati in centinaia di esibizioni, sono creativi, preparati e professionali. Tant’è che sulla faccia di ciascuno di loro, per quanto nascosta dal sorriso d’ordinanza, si scorgeva (altro vantaggio di seguire la manifestazione su youtube) l’espressione d’imbarazzo per gli sbagli tecnici che continuavano a ripetersi.

Questo è quello che dispiace di più, alla fine di un’edizione tutto sommato ricca di spunti musicali e co-presenze. Ma questo, a mio parere, è il grande problema della Notte della Taranta, che mi auguro qualcuno decida di affrontare arrivati al giro di boa del quindicesimo anniversario. La questione è che non esiste un’orchestra: esistono grandi solisti, più o meno in grado di coordinarsi insieme nel suonare brani conosciuti da tutti, ma che però non hanno il tempo – e non sono messi in condizione – di suonare insieme, di diventare una macchina affidabile al servizio del maestro concertatore di turno. Mi piacerebbe veder suonare quei musicisti come un solo strumento, come i Berliner Philharmoniker, e non come una all-stars qualsiasi, in grado di affidarsi alla bravura individuale e a poco altro. Per ottenere una vera orchestra ci vuole un vero impegno da parte della Fondazione: un impegno concreto, continuo e determinato. Se quei musicisti, pur mantenendo le specificità personali e la competitività degli estri artistici, fossero messi nella condizione di suonare come un’orchestra, allora diventerebbero davvero un esempio da esportare. Non solo: costituirebbero anche una guida per le nuove generazioni, a cui potrebbero trasmettere i segreti della loro professione. I giovani musicisti più dotati diventerebbero poi nuovi elementi dell’orchestra. Così la Notte della Taranta porterebbe davvero quello sviluppo di cui tanto si parla.

Il futuro, però, porta anche preoccupazioni. Il sito di affaritaliani (a quanto pare abbastanza informato e piuttosto influente) lancia il nome di Renzo Arbore come maestro concertatore per la prossima edizione. Sono convinto che il nome del leader non sia importante quanto la costituzione di una vera orchestra, ma se proprio dobbiamo pensare al conduttore, vi prego, lasciate perdere l’illustre foggiano. Renzo Arbore è un eroe nazionale nel campo della diffusione della cultura musicale. E lo è in almeno tre generi musicali (il pop degli anni Sessanta, il jazz, la musica popolare urbana). Come tutti gli eroi, va onorato e preso d’esempio, ma non lo si chiama a dirigere le truppe. Il mondo è pieno di menti musicali brillanti e illuminate, e ormai il concertone ha ottenuto un certo richiamo. La mia proposta allora, se Blasi, Bray e Torsello vogliono ascoltarla, è di fare un bando internazionale aperto a tutti i potenziali maestri concertatori (jazzisti, direttori d’orchestra o arrangiatori di musica etnica) e valutare le proposte in base al curriculum e alle idee musicali che giungeranno in sede da tutto il mondo (nonché dai locali). Questo potrebbe essere un buon modello per il futuro. Da esportare (forse), ma soprattutto da fare realmente nostro.
Gianpaolo Chiriacò

lunedì 13 agosto 2012

STORMY MONDAY #21


Un viaggio musicale in pieno agosto

Per il viaggio che la vostra premiata agenzia di musical tour vi propone questa settimana si consiglia di star leggeri. Così, se state facendo le valigie, è il caso di lasciare cose ovvie e inutili e di portarvi i-pod, lettori cd, macchine fotografiche e magliettine con le liste di concerti annesse. Da veri appartenenti al popolo dei concerti. Signori e signori allacciate le cinture, stiamo per decollare. Il filo- blues mette le ali, e son anche concessi gli scatti alle nuvole dal finestrino dell’aereo, le foto con i cantanti e i vari cimeli dei concerti.
La destinazione? ...o certo, la destinazione! Ma è ovvia: Ungheria! Sziget Festival! Dal 6 al 13 agosto a Budapest abbiamo la ventesima edizione del glorioso festival. Una line-up internazionale da brividi. Tra cui si scorge la presenza, dalla Puglia, di Erica Mou, Fabryka, Insintesi & Mama Marjas, One Way Ticket. Non sfigurano, i nostri conterranei, in mezzo ad altre band come gli Zen Circus, i Ministri, Bud Spencer Blues Explosion, Il Teatro degli Orrori, Dente, Management del Dolore Post-operatorio, i Cani. Da un altro pianeta arrivavano poi Prodigy, Skunk Anansie, Kaiser Chiefs.

Sorvolando invece sulla nostra regione il 6 agosto è stato un giorno propizio: come direbbero i Verdena, «è solo lunedì», ma inizia nel migliore dei modi e apre una settimana intensa. Jessie Evans, americana di nascita ma berlinese d’adozione, si esibisce a Polignano a mare. Il 7 agosto si tinge di note elettroniche con l’esibizione dei Planet funk al Parco Gondar, un set esplosivo; mentre a Torre Santa Susanna si apre la prima serata, con i cantanti locali Mezzatesta & Soci, della manifestazione “Facciamo la pace con i diritti”, organizzata dal gruppo territoriale Emergency e dall’associazione Adelante, in collaborazione con altre realtà locali. L’otto agosto c’è stata turbolenza nel cielo torrese: il concerto degli A Toys Orchestra. Atmosfere surreali e dinamiche, con testi e note di Enzo Moretto, la cui chitarra è divenuta simbolo di questa band. Come souvenir, da questo concerto, abbiamo la bacchetta di Andrea, le foto e una super chiacchierata con tutta la band.

Al Barcollo, sempre in zona Torre Santa Susanna, Luigi Bruno leader dei Muffx e chitarrista degli Opa Cupa, assieme a Cristiano Colopi, propongono uno spettacolo a base di rock folk con alcuni brani inediti, pezzi dei Muffx rivisitati ed esplorazioni etno-rock con chitarra elettrica, loop station e synth: “Quanto costano i tuoi desideri? Che sono uguale ai miei.”

La notte di san Lorenzo rimane libera per ammirare le stelle, bervi le birre in spiaggia ed esprimere qualche desiderio. Ma in lontananza potete sentire lo Jonio Jazz Festival. Ci auguriamo che siate già stati pronti per ripartire e andare all’inaugurazione del Gusto Dopa al Sole, che l’undici agosto ospita lo spettacolino, teatrale e simpatico, offerto da Caparezza assieme alla presenza di Mama Marjas, Valerio Combas degli Après la Classe. A scelta ci sarebbe anche il Parco Gondar, dove la continuazione del ricchissimo calendario prevede i M.o.p. e 99 Posse. Verso il brindisino, aTorre Regina, Apani, i Boom Da Bash continuano il “Made in Italy Tour” insieme ai salentini generali (The Coolsteppers, Rekkia, Cesko e Puccia, ancora dagli Après la Classe).

Il 12 agosto le nuvole a forma di note somigliano a quelle di Africa Unite, Nina Zilli, Macro Marco, Ghemon e Mirko Kiave, sempre in zona Gusto Dopa. Dall’altra parte il vento porta house ed elettronica a firma di Mister David Guetta (Parco Gondar). Michele Cortese propone il suo teatro dei burattini alla notte bianca di Specchia. Ultima tappa del viaggio... in Grecia. Il 13 agosto raggiungiamo le vette del “Rebetiko Tour” di Vinicio Capossela, a Martina Franca.

Siamo atterrati sani e salvi, bella gente. Grazie di aver viaggiato con la compagnia del Filo-Blues. Vi auguriamo le migliori vacanze sempre in compagnia di tanta musica! E che la musica vi accompagni in ogni momento! Arrivederci!
Nadia Vecchio

martedì 7 agosto 2012

STORMY MONDAY #20


Running up that ill

Con fare intorpidito, diviso tra dovere di cronaca bloggarola (ultimo pretesto che giustifica il fatto di ritrovarsi alle quattro e mezzo di mattina addormentati su una spiaggia completamente deserta) e un’irriducibile punta di sarcasmo legata al nome dell’ospite “a sorpresa” di Alba in Jazz 2012 (era davvero opportuno? era davvero una sorpresa?), cominciamo la scalata della suggestiva collina di Santu Mauru. Intorno a noi, un popolo di ragazzi freschi di movida, armati di i-Phone, teleobiettivi e flash che fanno concorrenza al sole timido dell’alba.

In cima troveremo Raffaele Casarano & Locomotive, protagonisti della settimana musicale del tacco, irriducibile motore della settima edizione del Locomotive Jazz Festival in quel di Sogliano Cavour. È lui, Raffaele, insieme alla sua band, ad accompagnare i rivoli vocali di Giuliano Sangiorgi (sorpresa!). Si tratta della costola notturna (o mattutina, per alcuni) di un festival per realizzare il quale gli organizzatori hanno messo in piedi un piccolo miracolo, vista l’esiguità dei fondi a disposizione, e visto il fatto che gran parte dei finanziamenti è stata tagliata poche settimane prima dell’evento. Così, tra spending review e defezioni dell’ultimo minuto, il Locomotive non ha potuto regalare quanto ci si aspettava, in termini di emozioni e coinvolgimento. Da locomotiva il festival si è dovuto trasformare nel “viandante”, che – gambe in spalla e cinghia stretta – porta con sé l’essenziale. Con quel poco, si è comunque costruita una macchina efficace: in musica, in esposizioni e in manodopera. Pochi elementi come pochi gli anni di attività, ma tutti ben piazzati.

Gianluca Petrella accarezza lo stomaco la prima sera. Rodato al fianco dei grandi nomi – Ottaviano che l’ha coltivato e Rava che l’ha messo sui palchi che contano –, il trombonista barese offre a una piazza ancora un po’ scettica le sessioni lunghe e cupe del suo quintetto. “A night in... Popoulos”, e la scena si sposta su un prodotto locale: Andrea Mangia, che martedì aveva ufficialmente aperto un agosto senza fiato con la notevole esibizione in formazione Girl With The Gun, nel corso del secondo Indiefest made in Lecce, sul palco dell’Ostello della Gioventù.

A Sogliano, il due, è mattinata libera prima della full immersion delle successive 24 ore: risaliamo la costa della Chiesa di San Lorenzo e siamo già buoni amici degli accoglienti autoctoni – che ci inventano sul momento parcheggi ignari dei fondamenti della circolazione automobilistica, nonché del senso del dovere dei vigili urbani del sud Salento durante le notti d’estate –, birra e Mauro Tre Trio d’aperitivo, vincitore delle “Jam del Birdland”. A un certo punto vediamo affacciarsi sul palco un Eugenio Finardi in jazz che, multigenere e teatrale come pochi, concede i pilastri della sua carriera ai Locomotive di Raffaele, che ri-strutturano il tutto, arrangiando con coraggio Diesel, Katia, Le ragazze di Osaka, Vil Coyote, Un uomo, La radio. Un tracciato apprezzabile, anche se si percepisce la nostalgia dei fasti delle origini con la gloriosa Cramps.

L’ospite più atteso arriva il 3 agosto: Lars Danielsson, contrabassista svedese adorato in Danimarca, partner tra gli altri di Kenny Wheeler e Bill Evans. Il musicista è pulito e impeccabile in ogni sua interpretazione, l’elegante luna piena su via Trieste poi contribuisce a ricreare un clima di pallida melanconia. Segue il bizzarro e ambizioso esperimento Locomotive Percussion Afrobeat con il Progetto Triace: Emanuela Gabrieli, Alessia Tondo, Carla Petrachi alla voce, Marco Rollo al piano e synth, Alessando Monteduro alle percussioni. Il temerario mix proposto dalla band – tradizione salentina e ritmi africani, jazz ed elettronica –  prometteva grandi cose, per lo meno sulla carta. Inaspettatamente però la performance si è rivelata fredda, il tentativo di fusione privo di armonia e a tratti persino irritante (beats spesso fuori luogo, tamburelli poco più che mero souvenir decorativo).

Ma è stata anche settimana di elettronica d’alto rango, giù in Puglia, con il downbeat a tinte esotiche dei Thievery Corporation, maestri indiscussi del genere (gli si perdona anche il recente, raffazzonato “Culture of Fear”), ospiti del gran cartellone del Locus Festival di Locorotondo. Nello stesso festival, menzione speciale va alla brillante apertura etiope con Mulatu Astatke, mentre i Thievery erano presenti il 31, nella persona di Rob Garza, coadiuvato dal loro equivalente italiota, ovvero Nicola Conte. Molto più giù invece, al Casablanca di Nardò, è stata la volta di Goldie, vera leggenda della jungle music britannica, tra gli eventi del Day Off Music Festival 2012 (a un anno dalla memorabile esibizione di Aphex Twin), in attesa del concertone conclusivo del 15 agosto, alla masseria Torcito.

Elisa Giacovelli
Roberto Rizzo